Vi presentiamo una carrellata di antiche tradizioni italiane regione per regione derivanti dalle stesse festività precristiane dei morti da cui deriva Halloween.
Abruzzo
Nel folklore abruzzese si credeva che, nel periodo di Ognissanti, i morti tornassero sulla terra e potessero decidere di rimanervi fino all’Epifania. Per questo motivo dopo cena, la sera tra l’1 e il 2 Novembre, il tavolo da pranzo veniva apparecchiato per ristorare le anime dei defunti che tornavano a far visita ai vivi durante la notte e si lasciavano – per illuminare il loro sentiero verso le proprie dimore – tanti lumini accesi alle finestre quante erano le anime care. A Campli si usava mettere un lume acceso sulla tomba, affinché il defunto, uscito dalla fossa, potesse servirsene per tornare a casa. Una delle più belle e dolenti poesie di Giovanni Pascoli, “La tovaglia”, fa riferimento proprio a quest’usanza, diffusa in buona parte dell’Italia, di lasciare la tavola apparecchiata la notte della vigilia di Ognissanti per consentire ai propri cari trapassati di riposare e rifocillarsi:
[…]Lascia che vengano i morti,
i buoni, i poveri morti.
Oh! la notte nera nera,
di vento, d’acqua, di neve,
lascia ch’entrino da sera,
col loro anelito lieve;
che alla mensa torno torno
riposino fino a giorno,cercando fatti lontani
col capo tra le due mani.[…]
Questo rito popolare subiva delle varianti da paese a paese: a Chieti, per esempio, era tradizione mettere in tavola pane, acqua e un lume, che doveva restare accesso per tutta la notte. La mattina seguente, quel pane veniva donato ai poveri. In altri paesi era tradizione mettere dei piatti di minestra sui davanzali, per i morti in processione. A Sulmona, per esempio, dopo la messa per i defunti si banchettava nel cimitero, sulle tombe dei propri cari.
Oltre alla cena era diffusa l’usanza di decorare le zucche (scavandole e intagliandole, per poi illuminarle con l’ausilio di una candela accesa e sistemata all’interno, con l’intento di rischiarare la strada alle anime dei morti e, al tempo stesso, giocare scherzi ad amici e parenti). Inoltre, la sera della vigilia di Ognissanti i giovani bussavano alle porte delle case chiedendo offerte per i defunti, solitamente frutta di stagione, frutta secca e dolci. Diffusa era anche l’usanza della questua fatta da schiere di ragazzi o di contadini e artigiani che andavano di casa in casa cantando un’appropriata canzone. Nella Valle Peligna non si raccoglievano le briciole cadute sul pavimento e i ragazzi giravano per le strade dipingendo immagini macabre (scheletri, teschi e tibie) sugli usci delle case per segnalare che i morti quella notte erano stati lì.
Molte di queste tradizioni sono rimaste vive in alcune località abruzzesi, ad esempio a Serramonacesca, in provincia di Pescara: i bambini passano di casa in casa, recando con loro zucche illuminate da una candela (che rappresentano le anime dei trapassati), bussano alle porte e, alla risposta del padrone “Chi è?” essi rispondono in coro: “l’aneme de le morte“. I Serresi offrono loro monetine, frutta secca e caramelle.
Basilicata
Esistevano diverse tradizioni nei vari paesi ma, tra le usanze comuni della Basilicata, ritroviamo il rito di lasciare la tavola imbandita per i defunti in visita quella notte, per ristorarli durante il loro ritorno. In alcuni paesi della Basilicata, dopo aver messo tutti a riposo, la donna di casa riponeva sui davanzali della propria abitazione del cibo, acqua e frutta come offerta ai defunti che giravano durante la notte: sistemate le offerte, come ogni abitante della casa doveva andare a letto prima della mezzanotte per evitare di incontrare le anime dei morti. A Brindisi Montagna si usava, durante il pranzo del 2 Novembre, mettere a tavola una posata in più, lasciando la porta semiaperta, per offrire ospitalità a qualche anima del Purgatorio di passaggio. A Calvello, fino agli inizi degli anni Novanta, alcune donne anziane portavano il giorno di Ognissanti del grano in una cappella chiamata “Purgatorio” per offrirlo ai defunti. Nella città di Matera esisteva una credenza particolare riguardo la processione dei morti: si narrava che le anime dei trapassati scendessero in città dalle colline del cimitero, stringendo un cero acceso nella mano destra. Nel Potentino, la vigilia del 2 Novembre, si credeva che le anime dei defunti, riprendendo i propri scheletri rimpolpati, uscissero dalle proprie tombe per aggirarsi in una lunga processione per le vie della città, da quel giorno fino all’Epifania. La processione dei morti, soprattutto nella tradizione lucana, aveva le proprie regole, un proprio ordine, e diverse erano le tecniche popolari per riuscire a vedere questo evento che suscitava ansia, timore e curiosità.
Non mancavano, anche in Basilicata, tradizioni simili al “dolcetto o scherzetto” americano: testimonianze di fine Ottocento confermano come la mattina del 2 Novembre girassero li pizzent’, cioè i poveri, intonando la richiesta: “Carità a li vivi e carità a li mort’”, ricevendo in cambio pane e fave.
Il giorno di Ognissanti alcuni ragazzi accendevano alti falò davanti ai cancelli dei cimiteri, mantenendo vivo il fuoco anche il 2 Novembre.
Calabria
Molte delle tradizioni qui presenti sono legate all’accoglienza dei defunti perché si immaginava che i morti tornassero sulla terra e si muovessero in processioni.
Prevalentemente in questa regione si usava – la sera della vigilia di Ognissanti – andare in corteo al cimitero dove, dopo le preghiere e le benedizioni per i propri defunti, veniva imbandito un banchetto sulle tombe a cui tutti quanti erano invitati a partecipare (presso alcune comunità albanesi della Calabria solo gli uomini che, prima di iniziare il pasto, versavano sulla tomba del vino rosso come offerta allo spirito del defunto).
In alcuni paesi, sempre l’ultimo giorno di Ottobre, si lasciava sul tavolo della cucina un piatto ricolmo di cibo, pane e una bottiglia di vino rosso (o, come a Zaccanopoli, solamente bicchieri colmi d’acqua per far bere i morti).
Oltre alle questue dei poveri c’erano anche quelle infantili, per il divertimento dei bambini che ricevevano doni. Nel giorno dei morti i poveri andavano di casa in casa chiedendo l’elemosina e ottenendo in cambio fichi secchi, noci, castagne e pane. Contemporaneamente, i fedeli portavano in dono alla chiesa grano, legumi e olio.
Nel paese Serra San Bruno, ancora oggi vi è la secolare tradizione del “Coccalu di muortu“: i ragazzini, dopo aver intagliato una zucca riproducendo un teschio (in dialetto serrese, appunto, “Coccalu di muortu“) e dopo averla illuminata con una candela accesa e posizionata all’interno, gironzolavano per le vie del paese tenendo in mano la loro creazione; in questo modo, o bussando agli usci delle case oppure rivolgendosi direttamente alle persone che incontravano per strada, esordivano con la frase: “Mi lu pagati lu coccalu?” (“Me lo pagate il teschio?”), ricevendo in cambio cibo e più raramente soldi.
Grande importanza aveva anche la festa di San Martino, celebrata con pranzi e scherzi.
Campania
In questa regione si usava (e si usa tutt’oggi) preparare dei dolcetti in occasione di Ognissanti: il torrone dei morti (si tratta di un torrone morbido a base di cioccolato che si trova in tantissime varianti, le più gettonate alla nocciola e alla gianduia) e il cosiddetto “monachino”. Oltre a questi dolci si usa ancora oggi, a Napoli, preparare un dolce all’uovo battuto, dalla forma di osso umano.
In alcuni paesi, la notte tra l’1 e il 2 Novembre, si lasciava sul tavolo della cena il torrone come offerta agli spiriti dei morti in visita. Era usanza diffusa lasciare un secchio colmo d’acqua in cucina perché i defunti potessero dissetarsi. Nonostante alcune testimonianze riportino di come fosse presente anche in Campania l’usanza d’intagliare e illuminare le zucche per Ognissanti, altre persone ricordano di come alcuni paesi seguano una tradizione simile a fine Agosto, per festeggiare i raccolti, durante la festa delle lanterne o lucerne.
Numerose sono le tradizioni legate alle questue e ai giovani: fino a poco tempo fa i bambini napoletani, nel periodo dei morti, andavano in giro per i vicoli della città portando con loro una piccola scatola di cartone, con una fessura alla sommità (una sorta di rudimentale salvadanaio), decorato con il disegno di un teschio. Scorrazzando a gruppetti, fermavano i passanti chiedendo qualche spiccio. Sempre nel napoletano i questuanti, il 2 Novembre, muniti di borsello per le elemosine, giravano per le case chiedendo soldi per le anime del Purgatorio. A Benevento i questuanti ricevevano legumi, granturco cotto, fichi secchi e noci.
In occasione di San Martino si organizzavano grandi pranzi e libagioni.
Emilia-Romagna
Largamente testimoniati sono i riti di accoglienza per i defunti che tornavano sulla terra per fare visita ai parenti ancora in vita nelle notti dei primi di Novembre.
La sera della vigilia del giorno dei Morti si lasciava la cucina pulita e ordinata, con cibo in tavola per nutrire gli spiriti dei morti (soprattutto polenta con fagioli, cibo dei morti). Di primo mattino, il 2 Novembre, si rifacevano i letti, per i morti che tornavano a riposare nei loro giacigli per un giorno intero, mentre la famiglia si recava in chiesa a pregare. Ogni tomba per la mezzanotte doveva avere il suo lume acceso, per guidare i defunti nel ritorno presso le loro tombe, di nuovo nell’Aldilà. Oltre che sul tavolo, le offerte di cibo per i defunti potevano essere poste anche nelle strade, soprattutto agli angoli.
Era diffusa la tradizione della “Carità di murt“, un’antica usanza emiliana legata all’abitudine dei poveri di recarsi di casa in casa chiedendo cibi di ogni genere per calmare così le anime dei defunti. Alcune volte potevano essere ragazzi giovani e mascherati. Per l’occasione si preparava la piada dei morti, una focaccia fatta con l’impasto del pane, frutta secca e mosto, e le fave dei morti, dolci tipici della vigilia di Ognissanti.
La notte del 31 Ottobre era usanza sistemare delle zucche intagliate (illuminate dall’interno con l’ausilio di una candela) sui muri dei cimiteri e nei crocicchi per spaventare le streghe, anche se inevitabilmente servivano per fare scherzi a chi passava nei dintorni. Alcuni ragazzi, soprattutto nel Ravennate, si divertivano anche a nascondersi dietro le siepi (che una volta erano lungo le strade di campagna) per uscire con la zucca accesa, non appena uno “sventurato” si trovasse a passare di lì. La zucca illuminata si chiamava “la Piligréna“. Questo nome, oltre ad essere usato per identificare la zucca intagliata e i festeggiamenti di quella notte in Romagna, è anche il nome di uno spirito, la Pellegrina, associato a un fatto avvenuto durante gli anni Trenta. Un carrettiere detto Sintinè doveva trasportare un carico di legna da Solarolo e Lugo. La strada che allora collegava i due paesini passava davanti al cimitero. Sintinè decise di far riposare il suo cavallo asmatico prima del cimitero. Poi diede alla bestia una frustata per farlo correre veloce e superare così di fretta il tratto oscuro. Il cavallo correva veloce, ma ecco che davanti al cimitero s’impennò: la Piligrena era davanti al carro ed era così orrenda che il povero carrettiere gridò e svenne. Un contadino accorso alle sue grida lo trovò morente. Si racconta che il fatto così raccontato sia un sunto delle ultime parole di Sintinè al contadino prima di spirare.
Come in altre regioni italiane, venivano preparati dei dolcetti chiamati “ossa dei morti”; nella zona di Parma sono tuttora mangiati e si vendono in molte pasticcerie: solitamente sono dolci di pastafrolla a forma di ossa, decorati con glassa di zucchero colorata o con cioccolata con l’aggiunta di codette di zucchero colorate.
Nel Piacentino aveva molta importanza il cibo: oltre a testimonianze di questue da parte dei giovani, veniva preparato il “panetto dei morti”, tutt’ora venduto nelle pasticcerie. In questa zona si usava, dopo la messa per i defunti, portare sulle tombe dei cari trapassati una zuppiera con ceci, fagioli o pere e castagne bollite, per sfamare i loro spiriti.
Nel Ferrarese si usava fare il “cuscino dei morti” (cussìn d’i mòrt), un piccolo semenzaio da portare come dono votivo alle tombe dei defunti.
Friuli-Venezia Giulia
In Friuli, come nelle vallate delle Alpi lombarde, era diffusa la credenza che nella notte dei morti questi ultimi potessero uscire dalle tombe – andando in pellegrinaggio nelle chiese fuori dall’abitato – e che chi vi fosse entrato in quella notte le avrebbe trovate affollate da una moltitudine di gente che non vive più e che sarebbe scomparsa al canto del gallo o al levar della “bella stella“. Per questo motivo sono diverse le tradizioni riguardanti l’accoglienza dei morti: dal non fare spegnere il fuoco perché i morti dovevano prima di tutto scaldarsi, al lasciare ingredienti per prepararsi il cibo da soli (in alcuni casi anche il materiale per fare rammendi e altri lavori).
Nella zona del Carso le famiglie, dopo aver cenato con castagne lessate, pregavano per i defunti, alla luce di un fuoco, lasciando in cucina un lume acceso vicino a un secchio colmo d’acqua per dissetare i defunti (il giorno dopo si gettava l’acqua dalla finestra). In altri paesi, come Pontebba, si versava latte in terra per offrirlo ai trapassati mentre a Malborghetto si lasciava del cibo sulle tombe.
In molti paesi era usanza, dopo la messa serale del primo Novembre, andare in processione la notte in cimitero per mandare benedizioni ai cari defunti (usanza praticata ancora oggi nelle zone di Spilimbergo).
Come visto in precedenza, era consuetudine illuminare la strada ai defunti, attraverso lumi accesi posti nelle finestre oppure, come a Uccea, illuminare i cimiteri con lumini ricavati da gusci di lumaca.
Durante questo ritorno dei morti, per esorcizzare gli spiriti negativi, le campane venivano suonate ininterrottamente la notte tra l’1 e il 2 Novembre.
Anche nel Friuli era diffusa la tradizione di intagliare zucche con fattezze di teschio e d’illuminarle dall’interno con l’ausilio di un cero. Queste zucche prendevano il nome di “morte zuchèta” e, se non venivano utilizzate dai giovani per fare scherzi ad amici e parenti, venivano poste sulle tombe, soprattutto nella zona dell’Udinese. Inoltre, erano diffuse usanze legate alle questue ma diverse da paese a paese, alcune applicate ad Ognissanti (soprattutto quelle praticate dai poveri che in cambio ottenevano vino e cibo come il pan dei morti, il “pagnùt”) mentre altre nelle festività natalizie o carnevalesche, feste che hanno anch’esse origine nei riti di passaggio dell’anno, similmente ad Halloween. In queste occasioni i bambini, travestiti da figure spaventose e mostruose per personificare le anime dei morti e mimetizzarsi tra di loro, andavano di casa in casa bussando alle porte e recitando filastrocche il cui significato era di chiedere dolci, noci o piccoli regali, in cambio di un augurio per le anime dei trapassati.
In Friuli, soprattutto a Trieste, si mangiavano le fave, dolcetto speciale di mandorle e di zucchero.
Lazio
A Roma era usanza consumare un pasto vicino alla tomba di un caro defunto per tenergli compagnia, solitamente una minestra di fave, dei dolcetti chiamati “le fave da morto” e altri denominati “ossa da morto”. Come per la Toscana, c’era l’usanza di fare scherzi alle persone e intagliare volti sulle zucche per usarle come lanterne. Un gioco tradizionale consisteva, dopo il tramonto, nel vestire una zucca intagliata (e illuminata da una candela sistemata al suo interno) con stracci o vecchi vestiti, dopo averla sistemata fuori di casa, nel muretto o nell’orto: a questo punto, si mandava fuori di casa uno dei bambini per spaventarlo. Quest’usanza avrebbe origine intorno alla seconda metà dell’Ottocento. La zucca intagliata e illuminata prendeva spesso il nome “La Morte”.
Diverse sono le usanze legate alla questua, nel giorno dei Morti (2 Novembre): si girava per le case dei parenti e conoscenti per chiedere il “bè pei Morti”. Si raccoglievano fichi, nocciole, noci e dolci. Si doveva contribuire altrimenti era credenza che una maledizione sarebbe caduta sulla casa e i suoi abitanti. Si diceva, infatti: “Dammi il bè dei morti se no ti caccia l’occhi”.
Nella capitale, l’ultimo giorno di Ottobre, venivano praticate delle cerimonie contenenti una forma di questua/offerta: svolte nelle cappelle dei cimiteri, decorate per l’occasione con drappi neri, si mettevano in scena fatti delle Sacre Scritture e si raccoglievano offerte tra i partecipanti per le anime del Purgatorio.
Largamente diffusi, nel Lazio, erano gli usi tradizionali riguardanti il giorno di San Martino.
Liguria
Numerosi sono gli elementi del folklore ligure che rimanda ai riti di accoglienza per i morti che tornano sulla terra, nelle loro vecchie dimore. Proprio per questo motivo in molti paesi liguri era tradizione preparare e riordinare le camere, alzandosi presto la mattina per lasciare il letto ai morti, stanchi del viaggio, oltre a preparare i bacilli (fave secche) e i balletti (castagne bollite) da lasciare come offerta sulla tavola, per aiutarli a rifocillarsi (delle volte anche regalati come dono ai bambini).
Dove la funzione religiosa si svolgeva la sera, i parenti, prima di recarsi in chiesa, accendevano lumi per aiutare i defunti a ritrovare la strada di casa, oppure allestivano un bel fuoco nel camino affinché potessero scaldarsi.
In Lunigiana la notte si andava a pregare davanti al cimitero; qualcuno bussava sulle tombe, per svegliare le anime.
Si riteneva che i morti raggiungessero i paesi e le case grazie ad una lugubre processione, in fila a due a due vestiti di cappa e cappuccio nero.
Interessante era la tradizione “dell’ufficiolo”: candeline di cera colorata, lunghe e molto sottili, raggomitolate più volte su se stesse, da cui spuntava uno stoppino, le quali venivano regalate ai bambini e accese durante i vari uffici per i defunti tenuti nel periodo di Ognissanti, usate per ornare chiese, tombe e case.
Anche in questa regione troviamo la tradizione della questua, col nome di “cantegora”: la notte dell’1 Novembre i bambini si recavano di casa in casa, cantando filastrocche o poesie in onore dei morti, per ricevere il “ben dei morti”, ovvero fave, castagne e fichi secchi.
Dopo aver detto le preghiere, i nonni raccontavano loro storie e leggende paurose.
Anche in Liguria era tradizione (e la è tuttoggi a Rezzo) intagliare volti che ridono nelle zucche e illuminarle con un cero sistemato all’interno dell’ortaggio, disponendole poi nei pressi di chiese di campagna o cimiteri per spaventare i passanti. Queste zucche prendevano il nome di “morte secca”.
Lenticchie, ceci, fave sono cibi tradizionali del 2 Novembre e i pasticceri, ancora oggi, preparano fave di pasta di mandorla e altri dolci tipici della ricorrenza.
Lombardia
Era diffusa la credenza che, durante le prime notti di Novembre, i morti tornassero nelle loro case ma, nella parte orientale della regione, i riti di accoglienza per i defunti venivano praticati durante la vigilia di Ognissanti (31 Ottobre): a casa, più precisamente sui davanzali delle finestre, si lasciava una ciotola di latte o un bicchiere di vino rosso e del cibo, solitamente castagne bollite, così da nutrire le anime dei trapassati. A Bormio la notte del 2 Novembre si era soliti mettere sul davanzale una zucca riempita di vino per dissetare i defunti (in altri paesi della Lombardia, ad esempio nel Milanese, fino agli anni ’30 era uso prima di andare a dormire di sistemare in cucina una scodella colma d’acqua fresca). Nella zona attorno a Vigevano e in Lomellina era presente l’abitudine di lasciare in cucina una zucca piena di vino, il fuoco acceso e le sedie attorno al focolare.
Nei dintorni di Sondrio, per nutrire i defunti, si era soliti imbandire la tavola da pranzo con castagne bollite o ceci. Ad accompagnare queste cene-offerte c’erano sempre dei lumi accesi, così da guidare le anime dei defunti a casa.
Nel Cremasco e nel Mantovano era presente una tradizione particolare: la sveglia suonava all’alba e i letti venivano rifatti il prima possibile, per offrire riposo ai defunti in visita dall’Aldilà.
Nel Bresciano, per accogliere i morti la notte antecedente il 2 Novembre, si lasciava il lume acceso per donare loro calore e si preparava anche il caffè. Per guidarli verso casa, si andava in processione fino al cimitero: prima per andare a prenderli, poi per riaccompagnarli alla loro dimora.
A Milano e in Brianza si usava intagliare delle zucche arancioni (a Brenna e altre località, grosse zucchine) per inserirvi le candele sul fondo (chiamate “Lumere“) e andare in giro a spaventare le vecchiette, andando di casa in casa a chiedere del cibo per i morti: noci, nocciole, castagne.
Quest’usanza non è altro che una forma di questua: il 2 Novembre era tradizione dispensare vino e pane ai meno abbienti, mentre i ragazzi andavano in giro per le case a chiedere “la karità per i pòr mòrt”. Nel Lodigiano, il 2 Novembre, veniva offerta gratuitamente da ogni oste alla sua clientela abituale una zuppa particolare, detta “dei morti” (parte di questo piatto veniva lasciato per i defunti insieme a pane e vino, sul tavolo principale del negozio per le anime di passaggio). Sempre nel Lodigiano i bambini, nel giorno dei Morti, ricevano regali e si diceva che a portarli fossero stati i parenti defunti.
Come visto in precedenza è testimoniato in regione, durante il periodo d’Ognissanti, l’utilizzo di zucche intagliate a forma di teschio e illuminate con una candela dall’interno. Nel Bresciano, tali zucche venivano chiamate “i cò dè mòrcc” ed erano poste sul ciglio della strada per spaventare i passanti, anche comparendo all’improvviso con salti e urli.
In Lombardia, come in Veneto e altre regioni italiane, si usava preparare dei dolcetti in ricordo dei defunti chiamati “oss de mort“. Qui c’era anche l’usanza di preparare il “pan dei morti“, chiamato “Pà dei mòrcc”, un delizioso dolcetto diffuso nel milanese e nel bresciano sin dal XV° secolo.
Marche
Le tradizioni di Halloween delle Marche sono pressoché identiche a quelle presenti in Umbria: si usava preparare dei dolcetti chiamati “Stinchetti dei Morti” che venivano mangiati il giorno dei morti per cercare di alleviare la tristezza per i cari amati che non ci sono più. Nelle Marche questi dolci prendevano il nome di “fave dei morti” ed avevano una ricetta particolare, che si tramandava di nonna in nonna.
Rispetto ad altre regioni, sono poche le testimonianze relative a riti di accoglienza domestica per le anime dei defunti. Abbondanti, invece, i materiali che riguardano le questue e le offerte.
A Fiastra era tradizione intagliare le zucche per illuminarle con un cero inserito al loro interno. Le zucche, così preparate, prendevano il nome di “la paura“.
Fino al 1930, verso S. Severino, si faceva “cattendi” ovvero i bambini andavano per le case a chiedere cibo.
La sera del 31 Ottobre, per le vie di Fabriano (Ancona) ad accompagnare i ragazzini nelle case per raccogliere frutta e biscotti, girava la “mort ‘mbriaca” ovvero un adulto che indossava un sacchetto di juta in testa, con dei buchi solo per gli occhi, portando in mano una lanterna accesa.
Nel giorno dei Santi e dei Morti era consuetudine, secondo le proprie disponibilità, donare elemosine ai poveri che giravano dicendo: “I Santi o i Morti, o non c’è niente per i Santi e per i Morti?”.
Era il periodo in cui i più ricchi potevano donare ai più poveri, senza vergogna per questi ultimi.
Durante queste questue, oltre alle fave dei morti, si donavano anche amaretti.
A Macerata erano in uso “le castagne de li morti”: venivano lessate o arrostite, alquanto inzuccherate, lievemente bagnate di alcool puro o di cognac poi bruciacchiate e mangiate.
Nel Camerinese si usava il pane nociato (pa’ nociato) fatto di pasta di pane, olio, noci pestate, uva appassita, zucchero e cedri.
Molise
In tutta la regione era diffusa la credenza del ritorno dei morti e della loro permanenza fino all’Epifania.
Per questo motivo i riti di accoglienza (soprattutto il lasciare cibo e bevande sulle tavole e lumi accesi sia all’interno sia all’esterno delle case), erano diffusi in tutto il Molise.
Ad Agnone (Isernia), per esempio, la sera del primo Novembre si andava a dormire presto, altrimenti i morti non potevano rientrare in casa. Si aveva cura di lasciare la tavola apparecchiata, per ristorare il morto.
L’usanza di intagliare la zucca era d’uso anche in Molise: si dava alla zucca la forma di un volto umano e si metteva una candela all’interno di essa creando così la “mort cazzuta” (“cazzuta” deriva dalla parola “caz” che in lingua punico-fenicia significa tagliare).
A Pescolanciano, fino al secolo scorso, durante la vigilia e la sera di Ognissanti, sui davanzali delle finestre e agli angoli delle strade buie, si esponevano delle zucche intagliate a mo’ di teschio, con all’interno un piccolo cero, per far paura ai passanti.
Il giorno di Ognissanti gruppetti di questuanti giravano per il paese bussando agli usci delle case, annunciando il loro arrivo con un canto in cui chiedevano doni per i defunti e i paesani davano loro legumi e frutta di stagione. Alcuni contadini erano soliti lasciare offerte alle parrocchie, per aiutare gli spiriti dei morti.
Anche in Molise ci sono testimonianze, soprattutto verso Campobasso, di defunti che portano doni ai bambini.
Si preparavano cene da consumare in compagnia di amici e parenti e delle porzioni venivano lasciate sulle finestre come offerte per i cari estinti.
Piemonte
Diffusi in tutta la regione erano, nei primi giorni di Novembre, i riti di accoglienza per il ritorno dei defunti.
Si usava, la sera di Ognissanti, radunarsi a recitare il rosario tra parenti e a cenare con le castagne. Finita la cena, la tavola non veniva sparecchiata: rimaneva imbandita col resto avanzato in quanto si riteneva che i trapassati tornassero a cibarsene. La famiglia riunita, dopo la cena, lasciava l’abitazione vuota per permettere agli spiriti di rifocillarsi, andando nel mentre in cimitero. In questa maniera veniva lasciata ai defunti la libertà di sfamarsi in pace (e chiacchierare tra loro, in particolare a proposito del destino dei vivi) prima di tornare nell’Aldilà. Il ritorno dei vivi a casa veniva annunciato dal suono delle campane così che gli spiriti potessero andare via senza creare fastidi. Stessa cosa avveniva in Val d’Aosta.
Nella notte tra l’1 e il 2 Novembre in alcuni paesi piemontesi, oltra alla tradizione di lasciare imbandita la tavola, era presente anche l’usanza di sistemare i letti per far riposare dalle fatiche del viaggio gli spiriti dei defunti in visita.
A Ossola e nel Biellese c’era l’usanza di lasciare, dopo cena, la tavola apparecchiata con un piatto di caldarroste, i biscotti tradizionali chiamati “ossa dei morti” e del vino rosso, perché le anime dei defunti, nella notte, passavano a far visita.
Nella zona di Viù, mentre i vivi mangiavano caldarroste, si predisponevano cibi anche per i trapassati; si faceva una minestra di cavoli e di notte si metteva fuori dalla finestra.
Ad Alessandria si usava tenere acceso il fuoco nel camino per scaldare le anime dei defunti.
Numerose sono le testimonianze legate alle questue fatte agli inizi di Novembre in nome dei defunti e dell’uso di zucche intagliate.
Puglia
Alla mezzanotte del 31 Ottobre davanti alle fotografie dei defunti si sistemavano dei ceri che dovevano bruciare per tutta la notte, affinché la loro luce guidasse gli spiriti dei defunti verso casa. La sera precedente al due Novembre si apparecchiava la tavola per i morti, che restavano in visita fino a Natale o fino all’Epifania.
In alcuni paesi si scavavano e si intagliavano le zucche, si accendevano fuochi nelle piazze e negli incroci e si cucinava alla brace. Gli avanzi venivano offerti ai defunti.
A Orsara, in particolare, la festa veniva (e viene ancora oggi chiamata) “Fuuc acost” e coinvolge tutto il paese. Si decoravano le zucche chiamate “cocce priatorje“, si accendevano falò (anticamente di rami di ginestre) agli incroci e nelle piazze per mostrare la strada di casa ai defunti e si cucinava sulle loro braci; gli avanzi venivano riservati ai morti, lasciandoli disposti agli angoli delle strade.
Diffusa era anche l’usanza della questua fatta da schiere di ragazzi o di contadini e artigiani che vanno di casa in casa cantando un’appropriata canzone. Questa costumanza in Puglia si chiamava “l’aneme de muerte” e si apriva con questa specie di breve serenata rivolta alla massaia:
“Chemmare Tizie te venghe a cantà
L’aneme de le muerte mò m’a da dà.
Ah ueullà ali uellì
Mittete la cammise e vien ad aprì.”
La persona cui era rivolta la canzone di questua si alzava, faceva entrare in casa la brigata ed offriva vino, castagne, taralli e altro.
In altri paesi erano solo i bambini a fare la questua: vestiti da fantasmi, bussavano di casa in casa a chiedere doni per i defunti, solitamente fichi secchi, melograni o formaggio. Questa tradizione prendeva il nome di “li muerticeddri” (i piccoli morti).
A Massafra gli anziani raccontavano che la notte del 31 Ottobre l’“aneme du priatorie” (anime del Purgatorio) lasciavano il cimitero e percorrevano in processione le vie del centro storico usando il pollice a mo’ di candela, raggiungendo le chiese per celebrare la messa dei morti. Se incontravano qualcuno per strada, lo portavano con sé.
La tradizione popolare narra che un tale – mentre si recava al lavoro all’alba – vide che in chiesa c’era la messa e vi entrò. Al termine della messa, quando il prete si girò per la benedizione, si accorse che era senza naso. Solo allora si rese conto che tutti quelli che erano intorno a lui erano morti e fu sopraffatto.
Le anime del Purgatorio erano molto rispettate dagli anziani tanto che a loro era dedicato un posto a tavola con tanto di posate e tovagliolo. Le anime rientravano nel cimitero la notte dell’Epifania.
Sardegna
Erano largamente diffusi in tutta l’isola i riti di accoglienza per le anime dei defunti.
La sera del primo Novembre, dopo la visita al cimitero e la messa, la gente tornava a casa a cenare con tutta la famiglia riunita. Dopo il pasto non si sparecchiava la tavola ma si lasciavano offerte di cibo per gli spiriti dei morti in visita. In alcuni paesi si allestiva appositamente il tavolo per i defunti, lasciando maccheroni e brocche d’acqua, oltre a lumi per illuminare la via di casa.
Una peculiarità del giorno dei Santi era la festa delle “anime” detta anche la tradizione di “su mortu mortu” (la frase che pronunciavano i sagrestani delle chiese di Nuoro quando bussavano alle porte nelle questue degli adulti): gruppi di bambini andavano per il paese bussando di casa in casa chiedendo “is animeddas” (le anime). I bambini, in cambio, ricevevano dolci; il dolce era considerato un pegno dato in ricordo dei propri cari scomparsi.
In Gallura, nella questua dedicata ai giovani, quando i ragazzi bussavano alla porta, chiedevano: “ce li deti li molti e molti?” (ci date i morti e i morti?). Il dono consisteva per lo più in castagne e fichi secchi.
Anche in Sardegna si usava intagliare la zucca a forma di teschio, che prendeva il nome di “sa conca e mortu“.
Nel Nuorese le zucche venivano intagliate con facce spiritate ed utilizzate per fare scherzi e spaventare i più piccoli.
Nel nord dell’isola si festeggia tuttora l’antica festa di Sant’Andrea celebrata a Martis e in altri comuni dell’Anglona e del Goceano: la notte del 30 Novembre gli adulti vanno per le vie del paese percuotendo fra loro graticole, coltelli e scuri allo scopo di intimorire i ragazzi e i bambini che nel frattempo vagano per le strade con delle zucche vuote intagliate a forma di teschio e illuminate all’interno da una candela. I giovani, quando vanno a bussare nelle case, annunciano la loro presenza battendo coperchi e mestoli e recitando un’enigmatica e minacciosa filastrocca nella locale parlata sardo-corsa “Sant’Andria muzza li mani!” (Sant’Andrea mozza le mani), ricevendo in cambio, per questa loro esibizione, dolci, mandarini, fichi secchi, bibite e denaro.
Sicilia
Anche in Sicilia, come in altre regioni del Sud, quella di Ognissanti è ancora oggi una festa speciale, soprattutto per i più piccoli che ricevono dei doni dai defunti. Dolci e frutta secca sono il premio che si aggiudicano i ragazzi che sono stati buoni durante l’anno. Più sono buoni e più dolci ricevono. I doni da parte dei defunti sono definiti “li cosi dei morti”. In Sicilia il 2 Novembre si mangiano, come in Veneto ed altre regioni italiane (anche se delle volte diverse nella ricetta), le ossa dei morti: dolci di pasta di mandorle vendute sin dalla vigilia fino a tutto il 2 Novembre.
Nella zona di Palermo, per celebrare il giorno di Ognissanti, si usa preparare la “frutta di Martorana”. E’ un tipico dolce siciliano simile al marzapane a base di farina di mandorle e zucchero e confezionato sotto forma di frutta. E’ molto simile al marzapane, ma più dolce e saporito. Si usa preparare anche dei dolci chiamati le “mani”, ovvero dei panini dolci a forma di mani e le “dita di apostolo”, dolci di marzapane simili appunto alle dita della mano.
In terra sicula la commemorazione dei morti rappresentava, e rappresenta tuttora, una vera e propria festa per i bambini che, attraverso questo primo contatto festoso e innocente, imparano ad esorcizzare la paura della morte e dell’ignoto.
Non mancano testimonianze legate all’accoglienza dei morti in casa: durante la notte tra il primo e il 2 Novembre, per aiutare il defunto nel suo ristoro, si lasciava del cibo sul tavolo della cucina, insieme a vino rosso o acqua, il tutto illuminato da una candela accesa per illuminare la strada al defunto.
Da Messina provengono, inoltre, delle testimonianze di questue che venivano praticate dai ragazzi più grandi, che approfittavano dell’occasione per compiere anche atti vandalici e scherzi.
In alcuni paesi come Paternò (CT) il giorno di tutti i Santi ci si recava al cimitero a visitare i morti insieme ai bambini e, insieme alle preghiere, si chiedevano dei doni. La sera si andava a letto presto perché, secondo la tradizione, a mezzanotte le anime dei defunti portavano i regali: dolci vari per i bambini che si fossero comportati bene durante l’anno, carbone per quelli che invece fossero stati cattivi.
Toscana
Anche in questa regione era presente l’uso delle zucche nel gioco dello “zozzo“: dopo aver scavato e intagliato la zucca, la si vestiva in modo che sembrasse un vero mostro e veniva posta in giardino in modo da spaventare la vittima dello scherzo. In alcuni paesi, la zucca intagliata prendeva il nome di “morte secca”.
Nella provincia di Massa Carrara, la giornata era l’occasione del “bèn d’i morti”, con il quale in origine gli estinti lasciavano in eredità alla famiglia l’onore di distribuire cibo ai più bisognosi, mentre chi possedeva una cantina offriva ad ognuno un bicchiere di vino; ai bambini, inoltre, veniva messa al collo la “sfilza”, una collana fatta di mele e castagne bollite.
Vicino a Grosseto era tradizione cucire delle grandi tasche sulla parte anteriore dei vestiti dei bambini orfani, affinché ognuno potesse metterci qualcosa in offerta, cibo o denaro.
Riguardo all’accoglienza dei defunti e i suoi rituali, nelle case, all’imbrunire, si recitava il rosario, di notte si andava davanti al cimitero per pregare e qualcuno bussava alle tombe per svegliare le anime dei morti.
Vi era, inoltre, l’usanza di mettere delle piccole scarpe sulle tombe dei bambini defunti perché si pensava che nella notte del 2 Novembre le loro anime (dette angioletti) tornassero in mezzo ai vivi.
Sulle tavole della cucina si lasciava pane, acqua e un lume acceso e, prima delle quattro del mattino, si rifacevano i letti per i defunti.
Nella Toscana rurale si scavavano le rape e si usava mettere un lumino all’interno, per proteggerlo dal vento quando ci si spostava la sera. Si credeva, soprattutto in questo periodo dell’anno, che fosse anche un modo per tenere lontani gli spiriti maligni celati nell’oscurità: una volta arrivati a casa, il lume non veniva spento, ma lasciato acceso vicino alla porta.
Veniva cucinato il pan dei santi, talvolta chiamato anche pan dei morti (ma attenzione a non confonderlo con quello lombardo, sono due dolci diversi). Prodotto dal 2 Novembre fino a Dicembre, prima dell’arrivo delle festività natalizie, è un dolce da forno a base di farina, noci, miele, strutto e uvetta, insaporito con del pepe nero che gli dà una nota davvero particolare.
Trentino Alto Adige
Anche in Trentino, nelle notti dei primi di Novembre, si attendeva il ritorno dei morti.
Dentro casa veniva lasciata una tavola apparecchiata e il focolare acceso per i defunti. Si usava preparare dei dolcetti chiamati “cavalli”: erano pani dolci di grandi dimensioni.
Le origini, non del tutto certe, sono legate probabilmente all’antico culto della dea Epona, protettrice dei cavalli (epos), che accompagnava le anime dei defunti nell’Oltretomba.
In Trentino erano le campane, suonando la sera del primo Novembre, a richiamare le anime sulla terra, a destarle dai loro luoghi di riposo.
In alcuni paesi, il 2 Novembre, bisognava lasciare il letto ai defunti, per aiutarli nel loro ristoro.
In Valsuga, fino al 1923, la sera di Ognissanti le donne avevano cura di riempire secchi d’acqua per dissetare i morti di passaggio.
A Bolzano si era soliti lasciare dolci di fichi secchi (zeltern) sui davanzali delle finestre.
Anche il Tirolo abbonda di testimonianze legate all’accoglienza dei defunti: in tavola, prima di coricarsi, si lasciava vino e dolci per ristorare i morti, dopo aver avuto cura di scaldare per bene la stanza.
Il 2 Novembre si usava una pratica simile al “dolcetto e scherzetto” per i più piccoli: quando si bussava alla porta si diceva “cuzze per i vivi, requie per i morti, carità per i vossi pori morti“.
Ancora oggi, in Valle Aurina, nelle sere dal primo al nove Novembre, uomini col viso coperto da una maschera di legno (Pitschelesingen) vanno di casa in casa chiedendo, con un canto, aiuto per i poveri.
Nella provincia di Trento troviamo testimonianze degli anni Venti del Novecento, di zucche intagliate e illuminate: a Bersone, dopo la messa, i giovani raccoglievano gusci di lumache che fissavano con la calce sui muretti, sulle fosse, sulle croci e sulle sporgenze del cimitero, le riempivano d’olio e le accendevano. Nella croce posta al centro del cimitero, oltre ai gusci di lumaca, disponevano una zucca intagliata a teschio e accesa, a dominare il paesaggio.
Umbria
Esistono diverse testimonianze legate ai riti di accoglienza per i defunti.
A Orvieto per esempio, i morti tornavano nelle proprie dimore il 2 Novembre. Per aiutarli nel loro viaggio, era necessario lasciare la luce accesa durante quella notte.
Morti e vivi in questi giorni sono accomunati dall’uso di cibi particolari, spesso indicanti già dal nome e dalla forma valori simbolici: era tradizione preparare dei dolcetti chiamati “Stinchetti dei Morti” che venivano mangiati il giorno dei morti per cercare di alleviare la tristezza per i cari amati defunti. Infatti, sostituivano le carezze di una persona cara trapassata. Questi dolcetti devozionali si consumavano, da antichissimo tempo, in molte regioni durante la ricorrenza dei defunti.
Questi dolci, di solito, si preparavano con una base di mandorle tritate e zucchero, farina, burro, buccia di limone. In Valnerina, fino a non molti anni fa, le strade che conducevano ai cimiteri erano punteggiate da bancarelle che vendevano proprio questi squisiti dolcetti. In questa regione si svolge ancora oggi la Fiera dei Morti, una sorta di rituale che simboleggia i cicli della vita.
Valle D’Aosta
Diffusi in tutta la regione erano, nei primi giorni di Novembre, i riti di accoglienza per il ritorno dei defunti.
Alcune famiglie tengono viva ancora oggi una tradizione, un tempo osservata in tutte le case la notte tra la festa di Ognissanti e la ricorrenza dei defunti: la sera preparavano la tavola per i loro cari passati all’altra vita, i bons défunts, mettendo a loro disposizione, per un pasto notturno, caldarroste, vino, formaggio, pane e salsicce.
Ad Aosta, la notte tra il primo e il due Novembre, si vegliava davanti al fuoco, lasciando la tavola imbandita di cibo per i defunti in visita. In altri paesi, la vigilia di Ognissanti, si ponevano dei secchi d’acqua nelle cucine, per dissetare le anime dei morti.
In varie zone della regione è diffusa ancora oggi la credenza che gli spiriti dei defunti tornino a bussare alla porta dei vivi per chiedere benedizioni per la loro anima nelle pene del Purgatorio.
Fino agli anni ’50, le parrocchie di Aosta continuavano a suonare ad intervalli le loro campane dal crepuscolo e per tutta la notte e nel pomeriggio di Ognissanti in tutti i café della città si distribuivano gratuitamente le caldarroste. E proprio con le foglie essiccate delle castagne si faceva la tipica “Kiuva”, un ammasso di fogliame conservato all’aperto per essere poi dato da mangiare alle capre durante l’inverno.
Veneto
In Veneto le zucche erano le protagoniste della tradizione; non solo nella cucina di questo periodo (famoso il risotto di zucca): era infatti usanza in tutta la regione (ci sono testimonianze diffuse a Treviso, Padova, Verona, Vicenza, Rovigo, Venezia e Belluno), fino agli anni Sessanta, scavare e intagliare le zucche, che venivano poi illuminate con una candela accesa al loro interno. Le candele poste al loro interno rappresentavano la resurrezione e le zucche illuminate venivano esposte nei davanzali (prendevano il nome di “suca baruca” o “suca bruca” e in alcune città presso Verona-Vicenza il nome di “Lumere” o “ lumaza“).
Dai racconti dei nonni emerge un’altra usanza simile a quella romagnola, che vede la zucca protagonista: al calare della sera, i ragazzi si divertivano a intagliare zucche, illuminandole ponendo un lumino acceso all’interno. Una volta pronte, andavano per le oscure strade di campagna o nei pressi dei cimiteri, si nascondevano dietro a siepi ed alberi e, appena passava qualche ignaro in bicicletta o a piedi, usavano le zucche illuminate per fare scherzi paurosi e dispetti. Nell’Alto Vicentino prendevano il nome di “suche dei morti”. Sempre nell’Alto Vicentino, fino a ottanta anni fa circa, le tradizioni cimbre chiedevano a ogni famiglia che poteva permetterselo di mettere una ciotola di sangue fresco (di coniglio di solito) alla porta per ridare forza ai morti che trovavano la strada di casa, grazie a dei lumini preparati dai bambini, fatti di chiocciole e un goccio d’olio.
Nei balconi-davanzali veronesi era lasciata in offerta una zucca vuota ripiena di vino.
Anche nel Veneto si preparavano gli “oss de mort” e le “fave dei morti” (quest’ultime più tipiche del veneziano) e si lasciavano a tavola, prima di andare a dormire, lumi accesi, un bicchiere di vino rosso e un piatto col cibo preferito dai parenti defunti in visita, per ristorarli durante la loro visita.
A Vicenza e Rovigo, la mattina del due Novembre, le donne si alzavano più presto del solito e si allontanavano dalla casa dopo aver rifatto i letti per bene, perché le povere anime del Purgatorio potessero trovarvi riposo per l’intera giornata.
Riguardo alle questue, oltre a quelle veneziane legate a San Martino, troviamo testimonianze nel Trevigiano e nel Veronese, zone in cui gruppi di ragazzini praticavano la “questua dei Morti”: andavano in giro per le case a chiedere dolci e soldi per le anime del Purgatorio.
“Carità per i vivi e carità per i morti”, recitavano sugli usci i bimbi di Follina il due Novembre.
A Venezia il giorno di San Martino (11 Novembre) i ragazzini hanno ancora oggi l’usanza di andare per le strade sbattendo pentole e chiedendo doni cantando filastrocche. Ecco un esempio:
San Martin xe ‘ndà in sofita/ a trovar la so novissa./ So novissa no ghe gera,/ el xe ‘ndà col cuo par tera/ viva viva san Martin/ Viva el nostro re del vin!/San Martin m’ha mandà qua/ che ghe fassa la carità./ Anca lu col ghe n’aveva,/ carità el ghe ne fasseva/ Viva viva san Martin/ Viva el nostro re del vin!/Fè atension che semo tanti/ E gavemo fame tuti quanti/ Stè tenti a no darne poco/ Perché se no stemo qua un toco!/
Se si è ricevuto qualcosa, si prosegue con:
E con questo ringraziemo/ Del bon anemo e del bon cuor/ ‘N altro ano tornaremo/ Se ghe piase al bon Signor/ E col nostro sachetin/ Viva, viva S.Martin./
Se non si è ricevuto niente, invece, si canta:Tanti ciodi gh’è in sta porta/ Tanti diavoli che ve porta/ Tanti ciodi gh’è in sto muro/ Tanti bruschi ve vegna sul culo./
Con i soldi guadagnati in questa maniera, si acquista il tradizionale dolce di San Martino, che esiste in due versioni: un dolce di pasta frolla a forma del santo a cavallo con spada e mantello, guarnito con glassa di zucchero colorata, praline, caramelle e cioccolatini, oppure (versione più antica) un dolce di cotognata. Tipici della festa sono anche i dolcetti di cotognata (persegada) di varie fogge.
Bibliografia e pagine web di riferimento:
- Wikipedia alla voce “Halloween”;
- “La vera storia di Halloween” di Mario Manzana e Elena Radovix;
- “Halloween. Origini, significato e tradizione di una festa antica anche in Italia” di Baldini Eraldo e Bellosi Giuseppe;
- “Le vere origini di Halloween” a cura di Sara Bernini, Monica Casalini, Luce e Chiara Rancati. Anguana Edizioni;
- Testimonianze e interviste a diversi utenti di Facebook oltre a nonni e parenti anziani. Si ringraziano in particolar modo gli utenti della pagina “Cuore di Strega”, “Calendario pagano” e “Le vere origini di Halloween” che hanno voluto contribuire con i propri ricordi.